Paolo RomanoPaolo Romano è un fisico solare in forze all’Osservatorio astrofisico di Catania dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dove si occupa di studiare i meccanismi di immagazzinamento e rilascio dell’energia magnetica durante le eruzioni solari e i processi alla base della formazione e decadimento delle macchie solari.

Che cosa significa fare ricerca nel campo della fisica solare al giorno d’oggi? Dopotutto, il Sole ormai dovremmo conoscerlo già molto bene…

La ricerca sulla fisica solare ha avuto un primo picco importante intorno agli anni sessanta dello scorso secolo, quando sono stati studiati nel dettaglio i meccanismi fondamentali alla base del funzionamento del Sole (come i cicli e le macchie solari), oltre a sfruttare queste stesse informazioni per interpretare dati provenienti da altre stelle. Successivamente, in effetti, il settore è stato parzialmente abbandonato, proprio perché si pensava di conoscere ormai tutto della fisica solare.

Tuttavia, negli ultimi 10-20 anni c’è stata una netta ripresa, soprattutto grazie alla crescita del cosiddetto space wheater, ossia lo studio degli effetti dell’attività solare sulla Terra e sul clima: un tema di grande attualità. Inoltre, la possibilità di fare osservazioni in alta definizione permette di studiare la formazione di strutture fini all’interno delle macchie solari: non solo, quindi, l’evoluzione globale delle macchie e del loro ciclo, ma processi e strutture interne più dettagliate. Su questo c’è ancora tanto da scoprire: non dimentichiamo che, ragionando puramente in termini di dimensioni, una macchia solare può essere grande quanto due o tre Terre, e dentro ciascuna Terra ci sono i continenti, le città, i continenti, le città, i palazzi, le persone, i batteri, ecc. Quindi andando sempre più in alta risoluzione possiamo scoprire fenomeni che ancora non comprendiamo fino in fondo.

Quanto è grande la comunità della fisica solare, in Italia e a livello internazionale?

In Italia non siamo tantissimi, circa poco più di un centinaio. A livello internazionale ci sono invece paesi, come l’India o gli Stati Uniti, in cui la fisica solare rappresenta ancora uno dei settori di ricerca più importanti nell’ambito dell’astrofisica. In generale oggi per noi fisici solari non è facile emergere, tenendo conto del grande interesse di ricerca mosso dall’astrofisica delle alte energie e dalla cosmologia, che attrae la maggior parte dei ricercatori del settore astrofisico. Tuttavia qui a Catania siamo forti di una lunghissima tradizione, grazie a un osservatorio dedicato all’attività solare che rappresenta ancora oggi un punto di riferimento nazionale e internazionale.

Quali sono i temi di ricerca di cui ti stai occupando in particolare?

Ci sono due settori in cui sono maggiormente coinvolto. Il primo è quello dell’alta risoluzione, a cui facevo riferimento in precedenza: in particolare io mi occupo di studiare la formazione di penombra nelle macchie solari e l’emissione di campi magnetici nell’atmosfera solare. A questo proposito sono impegnato, insieme ad altri colleghi qui a Catania, nel progetto dell’European Solar Telescope, un telescopio solare di 4 metri che sarà costruito nei prossimi anni alle isole Canarie e che promette di portare un importante salto di qualità in questo campo. L’altro campo di ricerca di riferimento è l’osservazione dallo spazio della corona solare: io studio soprattutto le eruzioni solari e le loro ricadute in ambito terrestre. Anche qui siamo coinvolti in un grande progetto dell’Agenzia spaziale europea: il Solar Orbiter, una sonda spaziale lanciata nel 2020 con a bordo un coronografo, uno strumento molto utile per studiare il vento solare e la corona, quindi la parte più esterna del Sole.

Il Sole viene poi sfruttato come “modello” per indagare fenomeni che riguardano anche altre stelle, giusto?

Esatto. Per esempio in alcune stelle più giovani del Sole si possono osservare i cosiddetti super flares, ossia brillamenti molto più energetici di quelli che possono verificarsi sul Sole (per intenderci, l’energia di un super flare è superiore dai tre ai quattro ordini di grandezza rispetto al più grande brillamento mai osservato sulla nostra stella): non avendo a disposizione una risoluzione spaziale sufficiente per studiare direttamente queste stelle, dobbiamo “sfruttare” il Sole, dove invece abbiamo la capacità di indagare nel dettaglio i meccanismi che possono innescare questi processi.

Quali sono invece i processi che possono avere impatti significativi sulla Terra, e come vengono monitorati?

Ci sono essenzialmente due direzioni principali. Una è rappresentata dai possibili effetti a breve termine, come le stesse eruzioni solari, che possono provocare potenziali danni a satelliti geostazionari, con conseguenti impatti militari, scientifici e nelle telecomunicazioni. Il problema è che, esattamente come per i terremoti, attualmente non siamo in grado di prevedere con esattezza il momento in cui può avvenire un’eruzione solare, sebbene sia ben noto che l’attività solare ha un andamento ciclico, con un’alternanza tra periodi di minima e massima attività. Tuttavia mi aspetto che nei prossimi decenni, visti anche i tanti progetti che prevedono la presenza fisica di esseri umani in missioni spaziali, anche sulla Luna o addirittura su Marte, aumenterà l’interesse verso la necessità di monitorare in modo sempre più puntuale l’attività solare.

L’altra direzione importante riguarda invece gli effetti solari di lungo termine, che possono produrre variazioni climatiche nel corso di anni o decenni. Ovviamente in questo caso l’approccio è diverso: mentre per gli effetti a breve termine si fa riferimento soprattutto allo studio delle strutture fini, con osservazioni in tempo reale, per il monitoraggio a lungo termine è necessario mettere insieme studi statistici che prendono in esame decenni o anche secoli di dati, necessari a studiare come varia nel tempo l’attività solare e le eventuali ricadute sul nostro clima. È un monitoraggio importante, perché questi effetti in alcuni casi sono tutt’altro che marginali. Si cita spesso come esempio il famoso “minimo di Maunder”: tra il 1650 e il 1700 circa il Sole si “spense” da un punto di vista magnetico, con una presenza estremamente bassa di macchie solari, provocando una serie di effetti a cascata sull’atmosfera terrestre, con un abbassamento radicale delle temperature e l’avvento di una piccola “era glaciale”.

Quanto è importante, nel tuo campo, la collaborazione con scienziati e professionisti che hanno diverse competenze?

È fondamentale, soprattutto in un ambito come lo studio degli impatti a lungo termine dell’attività solare sull’atmosfera terrestre: è un campo che richiede necessariamente competenze trasversali, dall’astrofisica alla chimica fino alla geologia, perché la nostra atmosfera è un sistema particolarmente complesso. Sicuramente si può migliorare, perché la comunità scientifica in alcuni casi tende ancora a essere scettica rispetto alla multidisciplinarietà. Tuttavia la ricerca sta andando sempre più verso questa trasversalità, che è strettamente legata anche all’internazionalità: la possibilità di lavorare insieme a colleghi che provengono da tutte le parti del mondo è una delle cose più belle del nostro mestiere.

Quali sono i feedback che hai ricevuto dagli studenti e le studentesse che hanno partecipato ai match di Sumo, soprattutto in relazione all’interesse verso la tua disciplina?

L’esperienza di Sumo ha confermato una sensazione che avevo già maturato in esperienze divulgative precedenti: i ragazzi sono attratti soprattutto da temi che hanno riscontri pratici, e che non si limitano ad ampliare il loro bagaglio di conoscenze di tipo fondamentale. Da questo punto di vista la fisica solare, con le sue molte applicazioni, è certamente un campo di ricerca in grado di suscitare interesse e curiosità nei più giovani.